VIVA L'ITALIA, VIVA L'ITALIA TUTTA INTERA

di Nicola Cozza

scansione0036Lo scompartimento ora era tutto mio. Mi sedetti sul sedile vicino al finestrino in favore di direzione, verso NORD, da Verona per il Brennero: stazione di BRIXEN, Bressanone (BZ)… questa era la mia destinazione.

Tra i compiti di un Sottotenente di complemento c’era anche questo: “accompagnare” i congedati in treno per una certa tratta, dopo che tutti erano stati avvisati che, in caso di disordini, sarebbero stati subito richiamati in caserma e puniti inesorabilmente essendo ancora in tutto e per tutto “sotto le armi”, almeno fino al rientro a casa e alla presentazione del foglio di congedo provvisorio presso il Distretto Militare di appartenenza… o qualcosa del genere. Ora non ricordo più con precisione, essendo passati ben 34 anni. Stiamo parlando infatti del 1986… E non ricordo nemmeno il mese esatto ma doveva essere in primavera, una di quelle giornate miti, con temperatura ideale, infatti viaggiavo in divisa senza soprabito (in “diagonale”, così era denominata l'uniforme bella), guanti in pelle e Cappello Alpino.

Un ufficiale avrebbe dovuto viaggiare in 1a classe, soprattutto se in uniforme ma in questo caso, essendo il mio compito quello di farmi notare dagli ormai ex artiglieri, euforici per la conclusione del servizio militare, avevo ricevuto dalla maggiorità un biglietto di 2a classe da Bressanone a Verona e ritorno. Durante l’andata, tra canti e battute goliardiche di ogni tipo, avevo percorso su e giù il treno più volte facendo rilevare la mia presenza ai ragazzi, tutti in abiti borghesi ma quasi tutti con il cappello da congedante in mano o in testa. Ricordo di essermi fermato a parlare un po’ con alcuni di loro, soprattutto con quelli che erano stati artiglieri nella batteria in cui prestavo servizio, la 19a del Gruppo di Artiglieria da Montagna “Vicenza”. Evitai però di fermarmi troppo a lungo comprendendo come la mia presenza fosse inopportuna oltre un certo numero di minuti… Dovevo lasciarli sfogare e limitarmi a controllare che non esagerassero.

Tutto filò liscio e non dovetti registrare sfottò particolarmente pesanti… forse qualche battuta e, in almeno un caso, un abbraccio commosso. Bene! Presto, ad ottobre, quella sorte sarebbe toccata anche a me.

Passare mezza giornata in treno, tra un vagone e l’altro, scendere nelle principali stazioni per poi risalire in tutta fretta, cercare ilscansione0025 capo-treno per avvisarlo della mia presenza, ecc. ecc. non è propriamente una passeggiata e anche per un ufficialetto di appena vent’anni perfettamente addestrato da marce, campi e scuole-tiro insomma… era troppo e finalmente, salutati i ragazzi alla stazione di Verona Porta Nuova e restituita loro la libertà pre-arruolamento, potevo cercarmi un posto tranquillo sul convoglio di rientro. Seduto, un po’ di tristezza… mentre il treno prese a muoversi dapprima con diffidenza e poi via via sempre con maggiore convinzione.

Fu così che vidi entrare quell’uomo nello scompartimento che ormai consideravo a me riservato. Piccolo, tarchiato, ventre prominente, pelle olivastra, ampia pelata; anche se ben rasato la barba gli segnava con decisione il volto. Beh… non era chiaramente un bio-tipo nordico bensì evidentemente e classicamente mediterraneo. Dopo un’occhiata preventiva, entrò deciso ma affaticato da un pesante fardello di borse e borsoni e non del tipo di bagaglio classico da viaggio; piuttosto borse della spesa, sporte da supermarket, quelle borse riutilizzabili fatte di fili di plastica simil-paglia intrecciati. L’unico bagaglio classico finì sulla griglia in alto, tutto il resto rimase a terra ad ingombrare la superficie calpestabile dello scompartimento espropriatomi.

“Oh cazzo! Proprio qua doveva mettersi questo?!”, dall’apertura delle borse facevano capolino bottiglie, vasi di vetro con coperchio a guarnizione e vari altri contenitori per alimenti. “Costui ha svaligiato una dispensa per mettersi in viaggio? Avrà paura di morire di fame?”. – Posso? – chiese, indicando il sedile di fronte al mio. – Prego! – risposi forse rivelando un po’ la mia scocciatura. Dovetti modificare il mio assetto sul sedile, ricomponendomi per ritrarre le gambe e lasciare che il villico potesse assestarsi dritto dirimpetto alla mia postazione. “Ma allora ce l’ha con me!”, volevo quasi sbottare e chiedergli di occupare almeno un sedile più a lato oppure avrei potuto spostarmi io dichiarando implicitamente aperte le ostilità.

scansione0012Fu allora che successe qualcosa che mi impose uno stop. L’uomo si alzò in piedi, si tolse il giacchino che appese ad un lato del suo sedile, restando in maniche di camicia, si infilò le mani in tasca cominciando a frugare, quindi ne ritrasse una con un oggetto e con l’altra estrasse il tavolino a scomparsa presente sotto al finestrino dello scompartimento. Con la mano occupata sbattè sul piano un oggetto preoccupante: un coltello a serramanico, non molto grande ma certamente efficiente. Nel mentre, si piegò a frugare nelle sue sporte, lasciandomi solo con quella vista inquietante. Cosa fare? Agire? Uscire e cambiare scomparto? La sorpresa mi impietrì.

L’ometto riemerse con qualcosa in mano: una pagnotta o meglio uno sfilatino di quello che prometteva essere un ottimo pane di grano duro. Lo teneva in mano come un trofeo e faceva in modo che io lo vedessi bene. In un attimo comparvero tovaglietta e salviette a sufficienza per coprire il piccolo piano di lavoro. Tagliò il pane trasversalmente con calma e con estrema perizia quasi senza produrre briciole; lo strumento da taglio che molto mi aveva preoccupato un attimo prima si rivelò perfetto alla bisogna. Una volta completata l’operazione, l’autore fece più volte il gesto di separare la parte superiore della pagnotta da quella inferiore per poi riassemblare le due parti controllando che combaciassero perfettamente. Le controllò e ricontrollò ruotando il pezzo di pane su sé stesso due o forse tre volte.

A questo punto il personaggio, posata la pagnotta, si immerse nuovamente a frugare nelle borse e ne riaffiorò con un salame in una mano ed un grosso e pesante vaso di vetro nell’altra. Non sapendo dove posarle, fece fluttuare le vivande qua e là in aria come a cercare una impossibile destinazione; al che, abdicando definitivamente al diritto di prelazione sullo scompartimento, offrii mea sponte il tavolino a scomparsa ancora libero estraendolo io stesso dalla sua sede. Un quasi impercettibile cenno del capo per ringraziarmi.

Incoraggiato dalla mia collaborazione, l’uomo prese ad affettare il salame e, sbucciandola con la punta del coltello, posava con meticolosa precisione ciascuna fetta prodotta sul supporto offerto dal pane sezionato. Ad ogni nuovo inserimento ripeteva la procedura: apertura del panino, posa millimetrica della fetta, chiusura del panino, controllo dell’esito fino a quel momento raggiunto. Stesso procedimento per le melanzane o i pomodorini sott’olio del grande vaso di vetro: apertura del contenitore, selezione del contenuto, sgocciolamento dello stesso, chiusura del contenitore, posa all’interno del panino, copertura e controllo con rotazione a 360°. E così per ogni pezzo. Non si trattava di un panino, ma di un’opera d’arte… stavo assistendo alla composizione di un capolavoro! Non lo capii appieno, se non quando vidi il compositore toccarsi la fronte con un dito e quindi scendere nella sua personale cambusa per prelevare un altro vaso… un altro componente… un altro colore per la sua inusuale tavolozza.

Tutta la scena si svolse inizialmente in quasi assoluto silenzio, in sottofondo lo sferragliare del treno e poco più. Poi vennero le parole, parche e conte. Mi raccontò di essere originario della Calabria ma attualmente emigrato in Germania dove era occupato in una importante ditta metalmeccanica. La voce era profonda, quasi baritonale e le parole, aspirate alla maniera calabrese, venivano pronunciate con calma. Il discorso non doveva interferire con l’atto creativo in corso soprattutto nei momenti in cui l’artefice tratteneva il respiro. Quando il treno sobbalzava troppo o doveva esprimere un concetto più solenne, il personaggio si fermava e pronunciava le sue sentenze guardando il mondo esterno dal finestrino. – L’uomo è ciò che mangia! – disse ad un certo punto filosofeggiando –… e siccome io non voglio correre il rischio di trasformarmi in un Bratwurst con Kartoffeln e saltzige Bretzel annessi, spesso scendo al paesello a rifornirmi di roba buona, come Dio comanda, confezionata da mia madre e dalle mie sorelle! – Mi confessò di farlo sovente, appena gli era possibile. Dall’ottima pronuncia con cui citò le teutoniche pietanze, dedussi che quella tradotta durava ormaiscansione0057 da parecchi anni.

Inaspettatamente, senza nessun preavviso, l’emigrante (migrante, si direbbe oggi?) filosofo, contrabbandiere di italici sapori, avvolse la sua creazione in un tovagliolo di carta e a mo’ di impugnatura di spada me la porse! – Perchè?! – disse, leggendo sul mio viso lo stupore che mi aveva lasciato basito a bocca aperta, – Vuoi dirmi che non lo mangi mica? –  – Vuoi scherzare? –  risposi mentre tenevo tra le mani quel tesoro inatteso come un musico novizio avrebbe potuto tenere uno Stradivari – Certo che lo mangio, ... per me è un onore. E…e tu? –  Ma il maestro brandiva già un altro sfilatino...

Fu così che mi capitò di mangiare il miglior panino che mai avesse viaggiato sulle strade ferrate della nostra Repubblica. Un panino che aveva percorso tutto lo Stivale per giungere fino a me quasi sul limitare del territorio nazionale. Un panino che sapeva di emigrazione e di naja, di lavoro e di lontananza, di SUD e di NORD. Un panino che sapeva certamente di amicizia e di disinteressata generosità. Insomma, in poche parole, un panino che sapeva di ITALIA.